Patrizia Gucci, pronipote di Guccio Gucci, fondatore della nota maison, ha presentato, alle Officine Garibaldi, il suo libro “Gucci, la vera storia di una dinastia di successo”

Patrizia Gucci: presenta “Gucci, la vera storia di una dinastia di successo”

Patrizia Gucci e Manuela Arrighi

Patrizia Gucci, figlia di Paolo Gucci, pronipote di Guccio Gucci, fondatore della nota maison che ha portato nel mondo lo stile italiano, il 18 luglio scorso è stata la protagonista del terzo incontro della rassegna “Marenia – Appuntamenti con la cultura”, organizzata a Tirrenia da Officine Garibaldi.

Patrizia Gucci ha presentato il suo libroGucci, la vera storia di una dinastia di successo”, edito da Mondadori.

Sul palco con la scrittrice, Manuela Arrighi, direttrice di Officine Garibaldi, e Michele Bulzomì.

Durante il dibattito, l’autrice ha raccontato una storia bellissima. La storia di una famiglia dove amore, passione, rispetto, professionalità e tenacia, si mescolano, per dare vita a qualcosa di magnifico. Creazioni splendide che, dal 1923, hanno portato il gusto italiano in ogni Paese del mondo. Grazie alla caparbia intuizione del bisnonno Guccio e, poi, del nonno Aldo e, infine del papà Paolo.

Patrizia Gucci, però, non si è limitata a parlare della griffe e delle le vicende legate alla casa di moda. Ha parlato di molto altro.

Nelle pagine del suo libro, infatti, l’autrice racconta anche della sua infanzia, come testimone, di fatti vissuti, realmente nella storia dell’azienda e dei suoi interessi di ragazza e della grande storia d’amore tra i genitori, Yvonne e Paolo.

La vita di Patrizia Gucci è stata ricca e piena di successi. Ha frequentato i migliori salotti internazionali e ha lavorato sempre con grande passione ed entusiasmo.

“Posso avere il grande orgoglio di appartenere a questa famiglia, di portare il nome Gucci, di avere nel mio DNA lo stesso corredo creativo. Infatti, anche se tutto è stato faticoso, dipingo, disegno accessori, scrivo”, dice Patrizia Gucci.

Lei, se non fosse stata irrimediabilmente catturata dal magnifico e calamitante fascino dell’haute couture, sarebbe stata una brava e affermata archeologa. Strada che aveva pensato di intraprendere, da giovanissima, facendo anche alcune esperienze sul campo. In effetti, la stessa passione per la ricerca, la cura del dettaglio e la pazienza, le ha poi riversate nel suo lavoro per la griffe di famiglia. E se, nel corso degli anni, anche star del cinema e teste coronate, come l’indimenticata Grace Kelly, hanno indossato abiti e accessori della famosa maison d’alta moda, lo si deve anche alla caparbietà e all’impegno di Patrizia Gucci.

Una famiglia di talenti, i Gucci.  Hanno ideato e creato un grande brand, (parola nata negli anni 70/80) ed esportato prodotti eccellenti in tutto il mondo grazie al passaparola. In un’epoca in cui non soltanto non esistevano i social e gli influencer, ma la pubblicità copriva una fetta molto ridotta del mercato.

E c’è un episodio che Patrizia Gucci ama ricordare, a proposito della grande differenza tra i tempi passati e la velocità con cui, oggi, accade qualsiasi cosa. In azienda, da ragazza, notava un piccolo quadretto. Una cornice custodiva la fotocopia di un assegno firmato da John Fitzgerald Kennedy.

“Agli inizi degli anni Sessanta mio nonno telefonò dall’America per annunciare ai suoi dipendenti l’arrivo di una lettera. – ha spiegato Patrizia Gucci – Tutti erano preoccupati, temendo rimproveri. Invece, arrivò quella fotocopia che testimoniava l’acquisto di un set di valigie Gucci da parte dell’allora presidente degli Stati Uniti. Una soddisfazione enorme”.

L’autrice, nel corso del dibattito, ha messo anche l’accento su un argomento trattato nel suo libro: lo spiacevole equivoco a causa del quale, in alcune occasioni, è stata scambiata per Patrizia Reggiani, moglie di suo cugino Maurizio la quale ha continuato a mantenere il cognome Gucci, dopo averlo fatto assassinare. Un’omonimia più che scomoda per l’erede della casa di moda. Un’omonimia che, di fatto, non doveva sussistere considerato che, nel 1994, la Reggiani aveva divorziato da Maurizio, perdendo il cognome Gucci.

Raccontare la storia della propria famiglia è una scelta sempre piuttosto complessa. Entrano in gioco sentimenti, ricordi, rimpianti e forti emozioni. Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro? 

È stato un bisogno. Ero stufa di leggere libri scritti da vari giornalisti, diffamatori e pieni di false notizie. Fin da piccola ero presente in fabbrica e assistevo alla realizzazione dei vari manufatti e alle scelte delle cuciture diagonali diventate, poi, il tratto distintivo del marchio. Il nostro customer care era a dir poco avanguardistico e i nostri clienti avevano un’assistenza unica nel suo genere. Venivano mostrati loro i campioni di pellame, affinché potessero toccarne con mano l’altissima qualità, come anche le possibili variazioni dei modelli di borse o valigie. E sulla base delle loro esigenze, in una settimana, veniva realizzato un accessorio unico e personalizzato. Ero la testimone oggettivamente più attendibile per poter parlare di tutto l’excursus del brand.  E così, come membro della famiglia, ho scritto la vera storia. 

Sulla dinastia dei Gucci è stato detto e scritto di tutto. Lei, nel Suo libro, racconta qualcosa sul marchio che, finora, il giornalismo di settore non ha conosciuto?  

Grazie a un approfondito lavoro di ricerca, mentre scrivevo il libro, mi sono accorta che il vero successo del marchio è stato il prodotto. Era un prodotto eccellente, unico al mondo per come era fatto. E il contributo del bisnonno e di altri componenti era semplicemente geniale.

Genialità e intuizione, dunque, sono sicuramente i due tratti distintivi del suo bisnonno, Guccio. Secondo Lei, potremmo aggiungere qualcos’altro?

La capacità, di vedere il futuro, anche contando sui figli Aldo, Vasco, Rodolfo. Furono i primi, nel 1953, ad andare in America, affermandosi in quel paese. Ricordo con infinita gioia la frase che pronunciò con orgoglio nonno Aldo quando decise di esportare i nostri prodotti negli Stati Uniti: “Porto Michelangelo a New York”.  Quanta verità in quelle parole! Tutti i prodotti, realizzati da maestri artigiani fiorentini, erano delle vere e proprie ‘opere d’arte senza tempo’.

Dopo quasi 100 anni in cui il marchio Gucci ha attraversato il globo. Cosa permane, oggi, dell’impronta che l’ideatore e il fondatore della maison aveva impresso?

Oggi, rimane solo “la patria potestà” dei disegni creati dalla mia famiglia. Il resto è tutto cambiato.

Lei ha iniziato la sua carriera negli anni Ottanta, occupandosi delle pubbliche relazioni internazionali del marchio Gucci, ma nel 1991 lascia l’azienda, come mai?

Ho iniziato facendo mansioni semplici, come era la mentalità della famiglia e poi, pian piano, con grande forza di carattere, anche perché donna, ho conquistato la mia mansione. Nel 1991 già parte dell’azienda era stata venduta. Eravamo rimasti solo io e Maurizio. Così, insieme, dopo aver valutato la situazione, decidemmo di lasciare l’azienda.

Condividerebbe con noi un ricordo legato alla sua famiglia?

Ricordo severità e determinazione. Una famiglia carismatica, quindi non facile. Ma un ricordo c’è! Quando mio nonno Aldo creò il profumo, portato dall’ America, riunì tutti i nipoti per sapere la nostra opinione.

Ci racconta la storia di Flora, il famoso foulard disegnato, nel 1966, per la principessa di Monaco, Grace Kelly?

La Storia è un po’ lunga. Nel 1966, la Principessa Grace di Monaco entrò nel negozio Gucci a Milano, chiedendo un foulard con fiori. A quei tempi c’erano solo foulard con soggetti inspirati al mondo dei cavalli. Mio zio Rodolfo le promise che dopo una settimana lo avrebbe trovato. Incaricò il suo costumista Accornero (lui era stato attore) di disegnarne uno pieno di fiori. E così fu. Questo foulard aveva ben 36 colori, rarissimo per quei tempi.

Ha creato una linea di borse e accessori con il marchio “PATTI PATTI”. Chi è Patrizia Gucci oggi?

Sono una creativa: disegno, dipingo e scrivo. Gli insegnamenti della famiglia hanno il merito di aver forgiato l’eredità del mio DNA, come la capacità al gusto, al senso estetico che, da sempre, percepisco come bisogno quasi essenziale.