Graditissimo ritorno nella nostra rubrica di interviste alla caffeina “Un caffè con” è il bravissimo scrittore napoletano Lorenzo Marone. Spunto della chiacchierata di oggi l’uscita in questi giorni del suo nuovo libro: “Inventario di un cuore in allarme“, edito da Einaudi”. Un libro molto divertente e interessante in qualche modo legato al tema più caldo del momento: il corona virus.
Curiosi di sapere perché? Armatevi di caffè e scopritelo direttamente dalle sue parole condite sempre con un intrigante pizzico di ironia 😉
Allora Lorenzo ci racconti come e quando è nata l’idea di questo libro? Uscito per altro in libreria con un tempismo perfetto: diffusione del corona virus che ogni ipocondriaco si sarà già diagnosticato almeno 100 volte da quando ne è stata data la notizia.
“Il libro è nato un anno fa e l’ho scritto di getto perché per me la scrittura non deve essere un qualcosa di terapeutico. Ho pensato: perché non cercare di esorcizzare le mie numerose fobie e ansie attraverso la scrittura usando l’ironia, come cerco di fare nella vita, e ancor più in tutto ciò che scrivo? Ma parlare di me e delle mie ansie e fobie era solo una sorta di pretesto, nel libro parlo sì di quello ma per arrivare a fare una riflessione ampia sul nostro vivere quotidiano.”
E a proposito di ipocondriaci… Pensi che leggere il tuo romanzo possa dargli un po’ di conforto?
“Non so se possa essere utile agli ipocondriaci che lo leggeranno, perché come ho detto quando l’ho scritto non immaginavo potesse uscire in questo pandemonio. Però quello che poi dico a me stesso e agli altri lettori è anzitutto di affrontare le cose con uno sguardo lieve, che nella vita serve sempre, che poi è quello che faccio anche nel libro. Si parla di fobie, di ansie e di morte ma per dare valore alla vita. Secondo me, infatti, non si può parlare di vita senza parlare di morte. Perché è proprio la morte a dar valore alla vita e in questo momento più che mai ce ne stiamo rendendo conto.
Nel romanzo parlo del dolore, della morte, della malattia, delle fobie, delle ansie, della fatica del vivere ma come reazione, cioè per cercare di dare valore al piccolo o al grande che abbiamo.
Quindi credo che leggere Questo libro potrebbe tornare utile in questo momento a chi sta passando un momento difficile, anche se poi mi stupisco sempre dell’inconsapevolezza della società che è incapace di ascoltarsi. Costruiamo tutto intorno a noi per cercare di non stare in ascolto, per cercare di non accorgerci del nostro essere mortali e invece questo deve servire, secondo me, come spinta per rendere degno il nostro tempo. Possibile che ci siamo accorti solo adesso che esiste la morte?! Siamo sempre alla ricerca di un qualcosa. Della felicità perduta, del lavoro che ci renderà felici, dell’amante che potrà renderci felici domani. Non siamo mai in ascolto invece.
A proposito di questo mi piace citare sempre una frase di Bufalino che diceva “Ogni tanto capita nella vita di sentirsi felici, non vi preoccupate è un minuto e passa!”. La felicità fa paura. E l’ipocondria è quello. Non è paura della morte, è paura della vita. Paura di vivere, paura di essere felici, paura di diventare adulti, paura delle responsabilità. Magari è anche richiesta di attenzioni, narcisismo, bisogna di cura, ma fondamentalmente, secondo me, siamo una società ipocondriaca perché abbiamo paura di vivere, di sentire la felicità. Quindi costruiamo tutto in modo che la felicità sia un qualcosa che è eternamente da raggiungere, mai da provare!”
Un ipocondriaco quindi potrebbe essere anche una persona che utilizza “il colpo di tosse” per dire esisto, ascoltami in un mondo sempre meno attento e predisposto ad ascoltare?
“Sì, anche se poi in realtà ottiene l’effetto opposto, perché così facendo l’ipocondriaco, poi, viene allontanato. Io, per esempio, mi definisco un ipocondriaco di professione, che ormai è consapevole delle sue ansie e fobie e cerca di rompere il meno possibile agli altri. Ma ci sono anche quelli inconsapevoli, perché come dicevamo prima, non si mettono in ascolto né di se stessi né degli altri, continuando a lamentarsi e a cercare l’aiuto degli altri, senza rendersi conto che così facendo perdono il diritto di essere ascoltati, di essere accolti. Infatti sono anni che, quelle poche volte che sono costretto ad andare in uno studio medico, vado da solo. Nessuno mi accompagna più, neanche mia moglie. E questo è un diritto che ho perso proprio per quel motivo.”
In questi tempi in cui assistiamo a una sovrabbondanza di informazione, causa internet e social network, non sempre veritiera, pensi sia meglio fare indigestione di conoscenza o non sapere? E perché?
“Se vogliamo parlare di ipocondria pura, la prima regola è: mai cercare cose su internet! Assolutamente! Purtroppo, però, e siamo la società dove si richiede l’onniscienza. Dove tutti devono essere messi a conoscenza di tutto e questo lo possiamo vedere quotidianamente proprio sui social che a mio avviso sono diventati il male assoluto. Social dove ognuno si sente costretto o in diritto di dare la propria opinione su qualsiasi cosa. Anche su cose incomprensibili, come questo virus, alla stessa scienza. Ma questo volerci onniscienti e anche onnipotenti, perché l’onniscienza porta all’onnipotenza, alimenta la fobia e l’ipocondria, non c’è dubbio. E porta in alcuni casi a ritirarsi in se stessi. Quindi penso che in generale questa quantità incredibile di informazioni che ci arriva da ogni dove è un male, perché oltretutto molte si rivelano essere delle fake news. Quindi alla fine per difendersi non si può dare ascolto a tutto.”
A proposito di cuore e ipocondria, viste le raccomandazioni di non baciarsi e abbracciarsi causa corona virus, parafrasando il famosissimo romanzo di Gabriel García Márquez com’è diventato secondo te “L’amore al tempo del corona virus”? Pensi che nel rapporto con gli altri l’amore di un ipocondriaco possa diventare attenzione per sé stesso fino a trasformarsi in egoismo?
“L’ipocondriaco in realtà non è egoista, perché non è tanto incentrato su se stesso quanto sul proprio disagio. Sicuramente è una persona che in un particolare periodo della sua vita, a causa di un certo malessere che sta vivendo, è in grado di dare poco agli altri perché concentrato a combattere questa sua guerra interiore.
Quello che si richiede all’ipocondriaco, e secondo me più in generale a tutti, è quello che ho imparato soprattutto da genitore: il saper recitare (vedi il fatto che ho raccontato del padre siriano che faceva il giochetto delle bombe con la figlia, un po’ come Benigni ne “La vita è bella”). Quello che dovrebbe fare quotidianamente un genitore ipocondriaco o una persona che soffre terribilmente in questo periodo per un proprio disagio interiore è cercare di recitare, di non passare le proprie ansie e fobie ai figli e di non chiedere sempre l’aiuto, la comprensione di chi gli sta accanto.
La psicoterapia dice appunto che se vuoi guarire dall’ipocondria non devi parlarne con nessuno e questo nel libro l’ho scritto parlandone in modo polemico. Che poi secondo me è anche vero perché non si guarisce così, o almeno non solo così, ma è anche vero che non possiamo stare sempre a chiedere soccorso ad altri. Penso che dobbiamo avere la forza di recitare e in qualche modo di nascondere il nostro disagio agli altri. Anche per noi stessi. C’è da fare un distinguo, come dico nel libro ogni notte Paolo Villaggio si svegliava e diceva alla moglie “ho un infarto, sto morendo” e la moglie gli rispondeva “Si, va bene, non ci pensare. Ci pensiamo domani. Ora dormi” e lui si riaddormentava e il giorno dopo seminava nel suo campo.
Ciò che dico è che, al di là dell’ipocondria, delle paure, delle ansie, del virus, bisogna continuare a fare. Fare nonostante la nebbiolina persistente con la quale i mostri tuoi convivono, soprattutto se sei un’anima profonda che soffre l’ansia ovvero vivi con quella certa ”appocundria” come si dice a Napoli, devi continuare a fare, a coltivare, a seminare nel tuo campo, nel tuo lavoro, nelle amicizie, nell’amore cercando di restare il più possibile in equilibrio. Questa è una fatica terribile, questo lo descrivo anche nei miei romanzi. I miei personaggi alla fine sono un po’ quello che sono io. Cercano di tenersi in piedi, ma faticano a vivere, si trovano sempre a un bivio costretti a dover scegliere, a trovare la forza di scegliere, la forza di cambiare strada. Alla fine questo è un discorso di cui parlo oggi, ma che in realtà è nascosto in tutti i miei romanzi.”
Quale messaggio vorresti che arrivasse a chi leggerà il tuo “Inventario di un cuore in allarme“?
“Mi piace definirlo una ricerca. Ci tengo a sottolineare che il romanzo non è solo il racconto della mia ipocondria, delle mie fobie, delle mie sofferenze. Non avrebbe avuto senso. Piuttosto è la ricerca di risposte da parte di un uomo, che sarei io, che alla fine ne ha trovate pochissime. In ogni caso questa mia curiosità mi ha portato anche alla conoscenza. E mi auguro che questo possa essere una scintilla per il lettore, un modo per far mettere anche lui alla ricerca. Perché secondo me alla fine è la curiosità il motore che alimenta tutto.
Questo libro è anche un modo di stare insieme, condividere notizie curiose, approfondimenti. Ma anche di riflettere un po’ su quello che è il nostro tempo, di parlare di vita e di morte ma sempre per dare valore a ciò che siamo, a ciò che facciamo, al nostro vivere. Diceva Philip Roth “la vita è solo un breve periodo di tempo in cui siamo vivi”. Ed è così. E dobbiamo cercare di rendere questo periodo il più meraviglioso possibile. Questo è ciò che vorrei trasmettere a chi leggerà il mio libro. Non un lamento. Nelle sue pagine ho messo tutto me stesso, tantissimi aneddoti personali divertenti in cui mi sono esposto parecchio.”
Come prende Lorenzo Marone il caffè?
“Lo prendo in tazza calda, da bravo napoletano, normale con poco zucchero.”