Oggi il nostro caffè lo beviamo con un vero intenditore di sapori: lo chef Francesco Mammola, che ci porta in giro per il mondo ripercorrendo la sua carriera dai Castelli Romani al suo ristorantino al Pigneto, a Roma, passando per la cucina della “Prova del Cuoco” l’ormai storico programma di RaiUno condotto da Antonella Clerici; e ancora la scuola di cucina del Gambero Rosso, il Consiglio d’Europa, il Brasile e la radio di “Italian Chef Academy“.
Parlaci di com’è nata la passione per la cucina e dei tuoi primi successi.
“Come mi ricordava qualche giorno fa mio padre, ho iniziato ad armeggiare in cucina intorno ai 7 anni quando per esigenze lavorative dei miei genitori, tornavo a casa da solo e mi scaldavo quello che mi lasciava mamma, oppure mi cucinavo le prime paste e devo dire che ho avuto sempre dimestichezza con la cucina.
Mentre il mio percorso professionale con la cucina è iniziato verso i 14 anni quando andavo ancora scuola e il sabato e la domenica per guadagnare qualche soldo lavoravo nelle trattorie dei castelli romani. Quando ho iniziato il lavoro di cucina non era molto ambito, perché era un lavoro di segregazione, non ti facevano uscire dalla cucina finché in sala c’era qualcuno, quindi ti consigliavano se volevi lavorare nella ristorazione di puntare alla sala, a diventare maitre; ma a me interessava da sempre la cucina ed è li che cercavo di arrivare.
Quindi andai a lavorare al “Bersagliere” una trattoria che si trovava a Roma sulla via Casilina, un’antica locanda dell’ 800 a conduzione familiare dove si fermavano i carretti che venivano dal frusinate per andare ai mercati a Piazza Vittorio; aveva al piano di sopra le camere per dormire e nel retro l’ovile e un menù composto da soli 4 piatti in base ai prodotti di stagione e le comande venivano prese tutte a memoria, finché a Roma non nacquero i primi locali che davano più importanza alla cucina, ed ho iniziato a lavorare per alcuni di questi, stando in cucina dalla mattina alla notte, con mia grande gioia e dove mi divertivo così tanto da saltare anche le pause pranzo.
Intorno ai 22 anni ho iniziato a prendere coscienza della mia bravura, e ad essere molto richiesto, perché oltre ad essere bravo nel mio mestiere, riuscivo bene ad integrarmi in ogni ambiente e a farmi volere bene; in quegli anni uscì a mia insaputa, un articolo sul quotidiano “Repubblica”, che parlava di me come di uno degli chef emergenti di Roma e di li a poco venne nel locale dove lavoravo, una giornalista che mi segnalò alla Rai, dando così inizio alla mia avventura alla “Prova del Cuoco”, il programma di RaiUno condotto da Antonella Clerici, dove sono rimasto per 5 anni, dalla seconda alla sesta edizione.
Nel frattempo quello che era il mio chef nel ristorante dove lavoravo entrò come insegnante al Gambero Rosso, che aveva aperto una sede qui a Roma, dove facevano anche corsi di cucina, e mi portò li a fare l’assistente; e per me è stata un’esperienza davvero formativa, perché i primi tempi al Gambero Rosso, c’erano tutti i migliori chef d’Italia ad insegnare, da Vissani a Colonna, a Pierangelini e Barbieri, solo per citarne alcuni.
In quel periodo, stanco della ristorazione, decisi di provare l’esperienza del catering, e lo feci con un catering molto grande e conosciuto: “Grandi feste”. Pensate che eravamo 12 persone in cucina, e che avevamo tutti clienti importantissimi: Vaticano, Ministero degli esteri dove stavo io, Capitalia, Confcommercio; per me era davvero stimolante perché davamo da mangiare a tutte persone importanti, eravamo in tutti i matrimoni di cui parlavano i rotocalchi, avevo la possibilità di muovermi in tutta Italia, di assistere ai retroscena politici, perché magari venivi chiamato per un servizio a casa del politico di turno.
Finisce anche l’esperienza in Rai e mi viene offerta la possibilità di fare un mio programma su Alice il canale di Sky, dove sto per due stagioni di seguito e nel frattempo si conclude anche l’esperienza del catering e arriva il grande salto di qualità: vengo assunto come chef al Consiglio d’Europa a Bruxelles e dopo un mese ero l’executive chef del Consiglio d’Europa, esperienza meravigliosa che mi ha permesso di cucinare per tutti i capi di stato mondiali, anche se a scapito della visibilità perché era un lavoro di dietro le quinte, di privacy.
Organizzavamo i pasti per 54 capi di stato e tutto il loro seguito, per un totale di 220 persone, ma la vera difficoltà non era quella perché ci sono dei cerimoniali ben definiti da seguire, con ogni capo di stato che porta il suo chef con il suo menù, i prodotti tipici del suo Paese d’origine e le sue abitudini alimentari e tu collabori con loro, impari come mangiano negli altri paesi, scopri altri modi di interpretare la cucina e altri sapori, spesso completamente diversi dai tuoi, impari ad assaggiare e a rispettare le usanze degli altri; i veri clienti da accontentare, erano piuttosto i 30000/50000 giornalisti che da ogni parte del mondo venivano a seguire l’evento, perché alla fine dei conti, erano loro che facevano le recensioni no i capi di stato, che anzi in quei momenti hanno come ultimo pensiero il cibo e a volte neanche mangiano.
E’ stata un’esperienza interessante e formativa anche dal punto di vista di gestione delle risorse umane, perché c’erano da gestire 140/150 cuochi, 6 cucine e 3 bar, con addetti di diversa nazionalità e abitudini, e i fraintendimenti erano all’ordine del giorno, ne ricordo uno in particolare in cui venni richiamato dai sindacati che affermavano che avessi fatto mobbing su un cuoco, solamente perché avendo una gran voglia di cucinare un giorno scesi ai piani bassi dove c’erano le mense con i corner di tutte le tipologie di cucina del mondo, mi misi a cucinare, e questo fece credere al cuoco di quella cucina che fosse un appunto verso il suo lavoro e tanta fu l’ansia che si diede addirittura malato.
In tutto questo ho continuato ad avere una friggitoria sul lungotevere a Roma, facendo il pendolare tra Roma e Bruxelles, finché non è finita l’esperienza al Consiglio di Stato, e sono andato a lavorare per un po’ in Svizzera sempre facendo il pendolare con Roma per seguire il mio chiosco sul lungotevere; ma a lungo andare la cosa si era fatta davvero stancante, soprattutto per le pressioni psicologiche e le troppe aspettative che c’erano su di me, quindi ho deciso di cambiare vita, chiudere con tutto e andare in Brasile, per raggiungere un mio caro amico e aprire un ristorante.
Lì ho conosciuto anche mia moglie, il ristorante andava bene e si lavorava comunque tanto, ho fatto un periodo li e quindi ho deciso di vendere tutto e tornare in Italia, dove ho partecipato ad un’altra edizione della “Prova del cuoco”, che mi ha fatto definitivamente capire che la televisione non faceva più per me. Nel frattempo ho continuato ad insegnare al Gambero Rosso e ho iniziato a collaborare nei corsi della scuola di cucina aperta da un mio amico “Italian chef Academy”, con annessa la prima Radio Food d’Italia, dove faccio anch’io un programma, perché a me piace tutto quello che è comunicazione.
Ora lavoro nel ristorante che ho aperto qualche mese fa al Pigneto, quartiere di Roma non proprio facile da vivere ma che a me piace tantissimo, perché la clientela che frequenta il mio ristorante ha un livello intellettuale molto alto, attori, artisti, ricercatori, che ti permettono di avere uno scambio intellettuale, c’è un’energia creativa pazzesca e poi a me piacciono le sfide!”
Ci hai detto che insegni ai corsi di cucina del Gambero Rosso, ce ne parli?
“Si sono 10 anni che collaboro come docente sia nei corsi amatoriali che professionali del Gambero Rosso e mi da molta soddisfazione, soprattutto quando ritrovo qualcuno dei miei ragazzi in ristoranti famosi oppure quando mi scrivono a distanza di tempo per ringraziarmi, perché penso in qualche modo di aver contribuito a quel percorso, alla realizzazione di un progetto.
Nei miei corsi, anche ad “Italian Chef Academy” cerco di insegnare ai miei allievi ad amare anche un lavoro che non è sempre bellissimo, è faticoso, a volte anche noioso e ripetitivo, perché il menù lo fa lo chef e i cuochi devono fare esattamente quello che dice lui, eseguendo i piatti sempre nello stesso modo, perché ogni volta il cliente vuole ritrovare lo stesso sapore, quindi l’estro e la fantasia a quel livello non servono assolutamente.
La cosa su cui insisto particolarmente nei miei corsi, è la gestione dell’impatto emotivo di questo lavoro, perché quando esce un piatto chi lo ha preparato è sempre sotto esame; anche quando si fa un semplice piatto di spaghetti alle vongole, finché il cliente non lo mangia si viene assaliti dall’ansia che non possa piacere! e questa è la grande differenza tra la cucina amatoriale e quella professionale, il lavorare continuamente sotto stress, anche se poi è proprio l’adrenalina del servizio l’ingrediente saliente di questa professione, basta vedere che è uno degli aspetti messi in evidenza nei film che parlano della cucina o dallo stesso “Master Chef” con l’introduzione dei giudici-chef che spesso interpretano personaggi al di sopra delle righe, che urlano contro i concorrenti insultando anche i loro piatti; ovviamente questo in una cucina reale non si può assolutamente fare altrimenti arrivano di corsa i sindacati a tutela dei tuoi sottoposti e allora sono guai.”
C’è una ricetta della tua famiglia a cui sei particolarmente legato?
“Sicuramente lo Zighinì perché mia madre è eritrea.”
C’è una persona in particolare per cui ami cucinare?
“Quando sono in famiglia, preferisco farmi coccolare e quindi preferisco che sia mia moglie a prepararmi dei manicaretti. In compenso amo molto cucinare con mio figlio Nicolò.”
Ci suggerisci una ricetta per la Pasqua da condividere con i nostri lettori, magari qualcosa che rappresenti l’italianità.
“Per me la Pasqua è strettamente legata all’agnello, quindi vi propongo il coscio di agnello farcito con i carciofi.
Prendete un coscio d’agnello aperto di circa 3 chili e insaporitelo con i condimenti della porchetta, finocchietto, pepe nero, un po’ di peperoncino e sale messi dentro al coscio; saltate i carciofi tagliati a spicchi in padella con la mentuccia, e una volta che saranno ben cotti, metteteli nel coscio insieme agli aromi; arrotolate il tutto ed esternamente se il coscio non è molto grasso mettete del lardo di colonnata, quindi legatelo con il filo oppure con l’apposita retina da arrosto che su prende dal macellaio e mettetelo in una teglia da forno con un fondo fatto con sedano, cipolle e un po’ di vino bianco o acqua per dargli umidità.
Mettete a cuocere in forno statico, preriscaldato a 130°, avendo cura di verificare la temperatura con un termometro; fate cuocere per circa 3 o 4 ore, verificando dopo 3 ore la temperatura del cuore del coscio, che deve essere tiepida; quando avrà raggiunto la cottura ideale toglietelo dalla pirofila, alzate la temperatura del forno a 200° e mettete il coscio sulla griglia del forno per fargli fare la crosta esterna. Volendo potete anche cuocerlo il giorno prima e grigliarlo solamente il giorno dopo quando lo dovete servire.
La raccomandazione che vi faccio è di controllare comunque la cottura perché le tempistiche sono del tutto indicative, in quanto dipendono dalla temperatura reale del forno, da quella iniziale della carne e così via.”
Cosa pensi dei programmi di cucina tipo Master Chef o la Prova del cuoco?
“La cucina è un posto di lavoro, i programmi televisivi che la riproducono sono spettacolo, l’ho fatto anch’io per tanti anni e so perfettamente che quella non è vera cucina. Comunque grazie a questi programmi, la Prova del Cuoco prima e Master Chef poi, la cucina è riuscita ad avere la visibilità del grande pubblico, è stata resa popolare, non riservata ad un elite di esperti come poteva essere il caso dei programmi del Gambero Rosso che andavano in onda su Sky, ma rivolti a chi sta davanti alla TV all’ora di pranzo.
Sono perfettamente d’accordo con l’utilizzo dello spettacolo per far avvicinare le persone ad esperienze che non hanno mai fatto, perché penso che sia una cosa buona, basta vedere che da quando ci sono questi programmi, le scuole di cucina sono piene, non solo di persone che vogliono imparare a cucinare per hobby ma anche di persone realmente intenzionate a lavorare nella ristorazione.
Inoltre questi programmi televisivi hanno dato una nuova luce alla figura del cuoco e dello chef, facendoli diventare dei personaggi di cui farsi vanto, tanto sta che un giorno è venuto un medico molto importante a ringraziarmi perché suo figlio aveva fatto i corsi, e con un mio collega riflettevamo sul fatto che fino a qualche anno fa se il figlio di un medico o di un affermato professionista avesse deciso di fare il cuoco, altro che ringraziamenti mi avrebbe maledetto!”
Food blogger: cosa ne pensi di questo fenomeno in espansione anche in Italia? ne segui qualcuno in particolare?
“Conosco il fenomeno, li seguo ma nessuno in particolare; penso inoltre che ce ne sono alcuni molto bravi e piacevoli da leggere, anche se quando si parla di cucina l’argomento è talmente soggettivo che definire bravo o meno bravo è un’impresa piuttosto ardua, perché la cucina è una sensazione, un’emozione che ognuno può raccontare a suo modo, quindi non è possibile parlare in assoluto di blogger preparati o improvvisati, perché ognuno avverte sapori e gusti in maniera diversa.
Penso inoltre che per noi appartenenti a questo settore sia molto importante farsi conoscere, monitorare i commenti dei vari blogger e dei clienti, perché quando le persone ti conoscono, sanno chi sei, sono molto più propense a venire a mangiare nel tuo ristorante e a spendere parole positive su di te.”
Disastri in cucina: quello che ricordi con un sorriso (se c’è).
“Dovevo preparare il menù per un capo di stato arabo, mi fanno affiancare dalla persona che si era portato, per controllare che non ci fossero contaminazioni, prepariamo tutto secondo il protocollo, un menù molto semplice e leggero con verdura e pollo e come dolce frutta con la gelatina. Il giorno dopo vengo chiamato dalla direzione che mi chiede menù e tutti i documenti degli ingredienti che avevo usato e scopriamo che la gelatina usata per il dolce conteneva il maiale.”
Come prendi il caffè?
“Mi piace il caffè americano: lungo e dolce.”