In questo momento storico in cui si parla tanto di precarietà e disoccupazione giovanile, la ricerca del lavoro e il riuscire a ottenere un colloquio di lavoro è una vera e propria impresa. Nessuna fascia di età, di istruzione e di esperienza è esonerata da questo martirio che spesso diventa umiliante, frustrante e demotivante. Così siamo tornati dal nostro caro amico, il professor Markus Krienke, docente di filosofia presso la facoltà di Teologia di Lugano, per farci spiegare come approcciare il colloquio di lavoro dal punto di vista filosofico. Bizzarra associazione starete pensando! Ma forse è il modo migliore per affrontarlo senza stressarsi troppo e riuscire a superarlo… Buona visione.
Lo scenario è chiaro direi, ma andiamo ad esaminare nel dettaglio quello che il professor Krienke ci ha suggerito.
Tutti sappiamo che i pochi fortunati che, dopo il terzo colloquio di lavoro telefonico, riescono ad essere convocati per l’incontro face to face, devono affrontare lo scoglio più grande ed è lì che si apre il sipario ed inizia il teatrino: un signor dipendete dell’azienda che dall’altra parte di una scrivania ci pone domande, spesso non inerenti con il lavoro per cui ci siamo candidati, osservando dove mettiamo le mani e quanti sorrisi falsi facciamo, pensando di essere onnipotente davanti al nostro bisogno di avere quell’impiego.
Abbiamo raccolto alcune testimonianze, che per la privacy citeremo in maniera anonima. Nella prima situazione troviamo il signor Capo (C) che sta intervistando un giovane neolaureato in comunicazione (G) in cerca di lavoro. Ed ecco le domande poste da C e ciò che pensa nella sua testa il ragazzo, ovviamente diverso da ciò che in realtà ha risposto durante il colloquio e che non riporteremo, sempre per una questione di privacy.
Caso 1)
C: Cosa direbbe di lei il suo ultimo capo?
G: Il mio ultimo capo potrebbe essere in prigione per quanto ne so.
C: Perché dovremmo assumerla?
G: Non assumermi se non vuoi! Perché dovrei lavorare qui?
C: Quali sono i tre aggettivi che la descrivono meglio?
G: È un gioco di società? La gente non si riduce a tre aggettivi. Le persone sono esseri complessi. La tua domanda è banale.
Altra situazione: un’intervistatrice donna Capo (C), sta facendo un colloquio di lavoro con un informatico senior quarantenne (A).
Caso 2)
C: Mi dica un comando della SHELL?
A: Sarei un professionista, ma che razza di domanda è? Se ti rispondessi “who am I + INVIO”, penseresti che ho una crisi di identità.
C: Si accomodi prego. (scollatura fuori luogo e sesta di reggiseno)
A: Ma se mi fossi presentato senza giacca e cravatta? Ah ma forse è un test sulla concentrazione?
C: Mi scriva un programma di esplorazione di un grafo dati in 5 minuti.
A: A te 5 minuti bastano per metterti tutto quel trucco al mattino? Ma hai capito che sono un professionista e che faccio questo lavoro da 20 anni?
E se invece l’intervistata fosse stata una donna? Sicuramente le domande sarebbe state: hai figli? Hai intenzione di farne? Va bene sorvoliamo…
Tutti credono che, in un colloquio di lavoro, l’intervistatore abbia un potere enorme mentre in realtà, spesso, è solo un dipendente dell’azienda anche lui, a volte, poco allenato alle sane conversazioni.
Non sottoponiamo l’idraulico o l’insegnante di pianoforte a un interrogatorio di terzo grado prima di assumerli! Perché no? Perché diamo per scontato che chi viene ad aggiustarci il rubinetto lo sappia fare. Mentre se arriva un laureato in marketing o in ingegneria, gli frantumano il fegato chiedendogli NON di dimostrare cosa sa fare, ma imbarazzandolo con stupidi interrogatori.
E proprio per evitare queste situazioni il classico colloquio di lavoro, sta per essere “mandato in pensione” dal nuovo approccio di valutazione che arriva in direttissima dall’America: il “Talent Game“.
Di cosa si tratta? Detto, fatto! È un nuovo format che segue proprio le dinamiche di un talent show ed il premio è il lavoro.
I meccanismi della gamification sono funzionali non solo a verificare gli skills ma anche a valutare i candidati all’interno di un contesto competitivo simile a quello lavorativo in cui quotidianamente si trovano ad affrontare piccole e grandi difficoltà.
I Talent Games consentono all’azienda di capire rapidamente e sul campo, al di là di lauree, specializzazioni o master, le reali competenze di chi si propone per ricoprire le posizioni messe a disposizione.
Dal canto suo, il giovane che si propone ha modo di capire l’ambiente di lavoro e quali mansioni andrà realmente a ricoprire. Il colloquio lascia quindi il posto ad una conversazione motivazionale per entrambe le parti.
Nel gioco escono fuori moltissimi aspetti della personalità e delle capacità di un candidato, il districarsi nell’imprevisto, la capacità di lavorare in team, la velocità e la lucidità nel gestire situazioni anomale e tante altre abilità pratiche e intuitive nelle quali cimentarsi.
Cari lettori qui ci troviamo di fronte ad una diatriba tra il nozionismo e l’innatismo. Ovvero una preparazione esclusivamente scolastica e meccanica acquisita nel tempo e le doti innate che ognuno di noi ha in sé dalla nascita.
L’innatismo Kantiano di cui abbiamo parlato precedentemente con il professor Krienke, sostiene che ognuno di noi, sin dalla propria nascita, ha in sé tutte le conoscenze, che poi, grazie agli stimoli del mondo sensibile tornano alla nostra mente con il processo di reminiscenza. La mente possiede per ereditarietà o per evoluzione istinti e funzioni che precedono l’esperienza.
L’uomo non eredita solo delle caratteristiche specifiche del suo sistema nervoso e sensoriale, ma anche una disposizione che gli permette di superare i limiti biologici imposti dalla natura. Il fatto stesso che esistano modi molto diversi di affrontare esigenze e bisogni, può portarci a credere che dentro di noi non vi siano istinti primordiali relativi a bisogni di tipo fisico. Il fatto d’essere così complicati nelle risposte che diamo alle nostre esigenze può anche presumere che dentro di noi vi siano bisogni anche di tipo immateriale, cioè di tipo emotivo o psicologico.
L’essere umano avverte il bisogno di affermare una propria identità e la differenza tra una persona e l’altra, sta proprio nel diverso modo di concepire tale identità, non c’è concezione nella mente di un uomo che non sia stata dapprima acquista, del tutto o in parte e l’intelletto non è altro che la combinazione delle operazioni dell’innato quali percepire o aver coscienza, prestare attenzione, riconoscere, immaginare, ricordarsi, riflettere, distinguere le idee, astrarre, comparare, comporre, scomporre, analizzare, affermare, negare, giudicare, ragionare, concepire.
Da che parte è giusto stare? Ci sono molti giovani che hanno intelligenza e sensibilità che, messe alla prova, danno risultati sorprendenti ma purtroppo davanti ad un test ne restano sopraffatti. Molti creativi ad esempio avrebbero difficoltà a sostenere un colloquio castrante e cattedratico. Ognuno di noi ha sue caratteristiche e doti innate che aumentano con l’esperienza. Trovo giusto che si dia modo alle persone di esprimersi come meglio possono.
Cosa vi suggerisce il vostro istinto riguardo a questi cambiamenti? Cosa pensate dei nuovi approcci al colloquio di lavoro? Stiamo seguendo la strada giusta? Io amo i cambiamenti ma poco gli “Hunger game” ed il timore che questi nuovi talent lo diventino se gestiti male, mi farebbero optare per una scelta più diplomatica. Confido nei nuovi metodi ma apporterei ancora qualche cambiamento per fare incontrare entrambi i pensieri, e farli coesistere al meglio, del resto il giusto sta nel mezzo non trovate?